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BREVI CONSIDERAZIONI SUL PROGETTO LUISO E SUGLI EMENDAMENTI 

La riforma, come detto, si occupa di assicurare maggior terzietà dell’arbitro e ciò  è certamente positivo (ed anche doveroso)  ma  non mi sembra poter generare -in tempi brevi- una nuova e più consistente domanda di arbitrato; per vero anche rispetto a tempi più lunghi, non mi pare che tale corretta preoccupazione (che ha un elevato valore culturale) elimini il problema, sicchè -anche sotto questo profilo-  la novella non sembra costituire un fattore “strutturale” che consenta da solo la necessaria crescita della cultura dell’arbitrato.

Vi sono anche altre innovazioni sicuramente opportune (come la risoluzione a 6 mesi del termine di impugnazione del lodo; l’inserimento delle norme in materia di arbitrato societario nel c.p.c.), tuttavia appaiono cose giuste ma di impatto limitato e, dunque, marginali in una logica di maggior diffusione dello strumento.

La stessa dichiarazione di indipendenza o l’integrazione dei motivi di astensione, pur condivisibili, non appare rivoluzionaria, viene già richiesta da anni da molte Camere arbitrali[5] che hanno interesse alla massima trasparenza dei propri procedimenti. La prevista sanzione di decadenza dell’arbitro[6] tuttavia dà un segnale molto importante che va nella direzione giusta.

Per vero, nemmeno la lettura degli emendamenti (apportati all’art.11 del DDL 1662[7]) fa intravedere grande fantasia (o suggerimenti di rilievo) viceversa apparendo centrale solo la (pur legittima) preoccupazione di contrastare la “patologia” dell’arbitro non indipendente[8], di assicurare la trasparenza e rotazione delle nomine presidenziali[9], come se la domanda di giustizia privata sia realisticamente condizionata dall’imparzialità nella designazione degli arbitri da parte dei Presidenti dei Tribunali.

Mi pare più realistico affermare  che la domanda arbitrale è soffocata dal troppo diffuso sospetto che gli arbitri possano non essere imparziali, sospetto radicato negli imprenditori e nei professionisti, anche per noti fenomeni corruttivi del passato. 

Questi “spettri” del passato (anche in termini di costi esagerati dei procedimenti) sono frutto di patologie (spesso generatisi nel contenzioso degli appalti pubblici), che rispecchiano quella che definirei come “sub cultura” dell’arbitrato, purtroppo, largamente diffusa nelle classi imprenditoriali e professionali.

Un esempio di tale radicata sub cultura arbitrale è la diffusa (quanto errata) convinzione che l’arbitro nominato dalla parte debba svolgere un ruolo “di parte” nel Collegio arbitrale, perdendo in equidistanza; tale radicata convinzione sopravvive tra i più  nonostante da molti lustri la dottrina abbia rimarcato l’obbligo di equidistanza e lo stesso legislatore con la legge n.5/2003 abbia dimostrato che la partecipazione dei litiganti alla designazione non sia elemento qualificante dell’arbitrato.

La  grave arretratezza della cultura arbitrale in Italia -che ha anche radici storiche[10]-  ed è dunque il vero nodo da sciogliere.

Su questo aspetto la riforma nemmeno tenta di apprestare soluzione perché non si pone obiettivi  ambiziosi.

Tuttavia solo una estesa diffusione della cultura dell’arbitrato, dei nuovi approdi dottrinali e giurisprudenziali, della comprensione che va costruita anche una seria “alternativa privata“ e che solo l’arbitrato amministrato organizzato e di alto profilo può generare una svolta in grado di superare gli inevitabili strascichi di un passato mai brillante ed anzi, talvolta, anche poco limpido.

E’ dunque mia opinione che la riforma dovrebbe intervenire innanzitutto sulla questione culturale che frena la diffusione delle clausole arbitrali.

Sono così poco coraggiosi i tentativi contenuti in alcuni emendamenti di dare incentivi per ottenere un diverso risultato: essi si limitano alla comprensione di dover incentivare il ricorso all’arbitrato ma propongono palliativi (su una strada che non è da non trascurare), utilizzando tuttavia solo la leva dei benefici fiscali[11] o di accordi sui compensi o attraverso la previsione di un costo fisso, correttamente rilevando che i costi arbitrali sono uno dei limiti alla diffusione della giustizia privata e, dunque, cercando di  utilizzare la leva economica quale possibile soluzione. 

In altri emendamenti è emersa la consapevolezza di dover innovare il sistema di giustizia arbitrale, puntando sulla costruzione di una vera  e propria alternativa di giustizia privata strutturata. Tali emendamenti tuttavia hanno veicolato idee troppo acerbe e poco strutturate, ma che vanno qui evidenziate quale possibile punto di partenza per una riflessione ed un intervento innovativo e coraggioso : in tal senso è l’emendamento n. 11.12/6 che al punto g-quater) propone di << prevedere la possibilità di stipulare convenzioni tra il Ministero della Giustizia e alcuni organismi arbitrali, per occuparsi delle controversie di cui sopra, ai quali riconoscere un contributo forfettario da finanziare, ad esempio, con una tassa di scopo di importo minimo, o in alternativa attribuire un contributo statale per le associazioni di proprietari e degli amministratori di condominio che costituiscono un organismo arbitrale>>.

Altra soluzione è quella di prevedere camere arbitrali[12] presso ciascun Consiglio dell’Ordine con un articolato emendamento (11.12/1)  che ha il pregio di capire che è la classe forense il   soggetto designato a sostenere, con i propri iscritti, il sistema della giustizia privata; tuttavia giunge a  tale soluzione senza adeguata consapevolezza degli strumenti e delle risorse necessarie a strutturare un adeguato servizio. Perché per la mia esperienza quasi tutti gli avvocati si dichiarano competenti a rivestire degnamente la veste di arbitro, ma non è detto che realisticamente tutti possiedano i numeri necessari a tale ruolo.

L’esperienza felice dell’ABF ha fatto tesoro degli errori del sistema delle Camere arbitrali presso le Camere di Commercio introdotto nel 1993, che fatta salva qualche eccezione come la CAM e poche altre, non hanno saputo dimostrare trasparenza nei meccanismi di selezione e designazione degli arbitri, così non riuscendo a costruire la fiducia del sistema imprenditoriale.

La Banca d’Italia ha invece operato una rigida scelta dei propri arbitri per competenza e prestigio ed ha strutturato segreterie competenti con il compito di supportare e coordinare gli arbitri, segreterie che costituiscono dunque il fulcro di un sistema ben organizzato in cui l’Arbitro è consapevole dei doveri e della responsabilità della decisione non solo nei confronti delle parti ma anche dell’Istituzione.

La predeterminazione di arbitri competenti ed autorevoli (ovvero la ragionevole presupposizione che la Camera designerà arbitri realmente competenti e terzi) è a mio avviso un elemento essenziale per la credibilità di una istituzione arbitrale.  Perché il vero nodo non è solo quello di selezionare gli arbitri ma soprattutto quello di creare una domanda di giustizia privata che possa sostenere organizzazioni strutturate a tale scopo.

Appare tuttavia complesso per un Ordine professionale elettivo, poter effettuare una reale selezione per competenza tra i propri iscritti dove, come detto, ritengo questo sia invece passo necessario e caratterizzante per una istituzione arbitrale che sia efficiente e funzionale e, pertanto, idonea a generare la fiducia del sistema delle imprese.

Sebbene in questi ultimi emendamenti emerga la consapevolezza che la crescita della domanda arbitrale debba essere  legata ad un processo di strutturazione della giustizia privata, le soluzioni indicate non paiono adeguate:  nè a creare organizzazioni di segreteria camerale strutturate (come quelle create dalla Banca d’Italia nelle sedi dell’ABF) in grado di assicurare con il loro intervento tempi e standard qualitativi uniformi, né tantomeno a mettere a disposizione le risorse economiche necessarie a supportare istituzioni arbitrali idonee a captare la fiducia del sistema delle imprese.

Il colossale flop della Riforma Renzi (che prevedeva la possibilità di trasferire cause dalla giustizia togata a quella arbitrale) avrebbe dovuto far comprendere le criticità di riformare un sistema tanto complesso e delicato:

- la difficoltà di arrivare ad una convenzione arbitrale a lite insorta (quando il giudizio è iniziato è già troppo tardi per trovare un consenso congiunto delle parti all’arbitrato);

- nessun risultato si può raggiungere senza adeguate iniziative di promozione della giustizia privata ed investimenti nella cultura dell’arbitrato;

- l’elemento della fiduciarietà che connota l’esperienza arbitrale va guadagnato e sempre alimentato dalla qualità delle decisioni e da meccanismi, almeno reputazionali, di controllo dell’operato degli arbitri.

Bisogna dunque giungere alla scelta arbitrale prima che insorga la lite (inserendo le clausole arbitrali già nei contratti) e vanno assicurati seri punti di riferimento istituzionale per consentire alle parti nel contratto di effettuare, senza timore, la scelta arbitrale, potendo contare sulla reputazione non solo dell’arbitro o degli arbitri nominandi ma delle istituzioni che li designano, e che   hanno interesse -più di tutti- alla qualità della decisione (e non a chi vinca o chi perda la singola lite).

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