Il sistema dell’arbitrato delle opere pubbliche (ora dei contratti pubblici) che ha una storia recente e travagliata, ha un passato antico[14] essendo stato tradizionalmente risolto in arbitri il contenzioso degli appalti della p.A.
Negli ultimi 30 anni abbiamo assistito a molte evoluzioni in questa materia: la battuta di arresto con il noto divieto assoluto di devoluzione delle controversie in arbitrato[15]; il noto intervento della Consulta[16] in tema di divieto di arbitrato obbligatorio; la reintroduzione dell’arbitrato delle OO.PP. con la L.n.215/1996[17]. Ed infine la legge di riforma n.415 del 1998 (cui hanno fatto seguito plurimi aggiustamenti) che ha introdotto il sistema dell’arbitrato necessariamente amministrato, decretando la fine del regime previgente del capitolato delle OO.PP.[18]. La riforma del 2012 (L.190/2012) che ha introdotto l’odierno sistema di arbitrato amministrato dalla Camera dei Contratti pubblici presso l’ANAC.
Ebbene nonostante sia evidente che con l’arbitrato Camerale si sia ha inteso ripristinare un certo vantaggio “istituzionale” e “di posizione”, subito colto dalla dottrina più attenta[19] , alcune scelte poco comprensibili, hanno portato al rapido declino dell’arbitrato in siffatta materia, essendosi negli ultimi anni inaridita una domanda tradizionalmente sostenuta[20].
Questo progressivo abbandono dell’istituto proprio nel settore di maggior interesse dell’economia, in cui si gioca una importante partita tra p.A. e sistema delle imprese, poteva (e doveva) essere oggetto dell’intervento riformatore, essendo la risoluzione arbitrale tra imprese e p.A. un nodo centrale in vista dell’auspicato rilancio dell’economia.
Le premesse poste nel progetto di riforma di voler valorizzare l’arbitrato erano un’occasione imperdibile per rimediare al vulnus che il legislatore aveva inferto anni fa alla cultura dell’arbitrato con scelte normative discutibili -che seppure giustificate dall’asserito sperpero del denaro pubblico- non sono più sostenibili[21] oltre a risultare oggi incoerenti con le linee di azione della riforma.
L’arbitrato dovrebbe costituire la corsia preferenziale anche e soprattutto per il contenzioso della p.A. con il sistema delle imprese, dove invece la sua odierna sottoutilizzazione è a dir poco preoccupante visto che il primo degli obiettivi concreti a sostegno del sistema delle imprese dovrebbe essere quello di accelerare il trasferimento delle risorse alle imprese, anche attraverso la più celere risoluzione del contenzioso con la p.A.[22]
Quando la p.A. è debitrice può troppo agevolata a giocare “di rimessa” dinanzi al Giudice togato e troppo spesso si avvantaggia dei tempi del processo togato (con effetti molto negativi sul sistema delle imprese); senza contare che quando vengono in gioco progetti, fondi pubblici, esigenze di rendicontazione, ecc.. con scadenze temporali improrogabili, i lunghi tempi della giustizia togata divengono un vero e proprio freno del sistema economico e ragione di perdita dei finanziamenti, questi ultimi, il più delle volte, legati al rispetto di termini rigidi incompatibili con quelli della giustizia togata.
E’ dunque lo Stato a dover mostrare di voler rinunziare a quell’effetto dilatorio che gli consente anni ed anni di limbo prima di effettuare i pagamenti dovuti, perché è oggi un imperativo non solo liberare risorse economiche (e le relative riserve di bilancio) a favore del sistema delle imprese (spesso bloccate per lustri), ma anche rendere più trasparenti i bilanci di enti pubblici ed imprese private, viceversa per anni afflitti (e resi opachi) da iscrizioni (fedeli o poco fedeli) circa il possibile esito del contenzioso e da un blocco di risorse che incide pesantemente sul sistema delle imprese e loro possibilità di investimento.
L’alternativa all’arbitrato in questa materia sono corsie preferenziali e procedimenti accelerati dinanzi al Giudice togato, soluzione quest’ultima che lo Stato italiano sembra non potersi permettere.
Deve dunque puntarsi più coraggiosamente sull’arbitrato specialmente nel contenzioso dei contratti pubblici rendendo l’arbitrato la regola (e con possibilità riconosciuta ad entrambe le parti di svincolarsi, ma solo prima che il contenzioso insorga).
La normativa in tema di arbitrato dei contratti va infatti rivista come sollecitato dalla dottrina: << lo scarso ricorso all’arbitrato amministrato nei contratti pubblici oggi comunque non si giustifica, in quanto quest’ultimo rappresenta uno strumento flessibile e vantaggioso in termini di riduzione dei costi, dei tempi e di miglioramento della qualità>>[23].
Se l’arbitrato è un valido strumento, come ampiamente riconosciuto anche nel progetto di riforma, non si comprende perché esso non debba essere utilizzato appieno per risolvere il contenzioso tra p.A. ed impresa, risoluzione che in questo momento storico -in cui le risorse per il rilancio dell’economia sono nella mano pubblica- appare paradossale.
Vanno dunque eliminate norme (poco coerenti sul piano teorico) come il divieto di compromesso a pena di nullità (ed altre limitazioni previste nella normativa sui contratti pubblici), che pagano dazio ad una logica di sospetto di corruttele, che andavano e vanno semmai combattute dallo Stato con più adeguati strumenti di contrasto ai reati e non invece depotenziando -a scapito di altri valori- il sistema di risoluzione delle controversie.
La p.A. deve potersi svincolare dalla scelta arbitrale, ma solo in casi specifici e per ragioni serie e motivate, sì che la scelta arbitrale effettuata nel bando e confermata nel contratto non possa venire meno solo per ragioni dilatorie od attribuendo uno (squilibrato) potere di ripensamento ad uno solo dei contraenti.
La tradizionale diffidenza delle p.A. rispetto allo strumento dell’arbitrato ed al temuto abuso di tale strumento per dilatare le debenze della Committenza pubblica, si possono superare agevolmente con altri strumenti.
De jure condendo, non sarebbe complesso prevedere un nuovo regime dell’impugnazione che porti in subiecta materia l’odierno appello limitato verso un appello pieno (completando una diversificazione con l’arbitrato del codice di rito già iniziata con l’unificazione del giudizio bifasico prevista dall’art.209, co.15, Codice dei contratti).
Se si vogliono garanzie (che il denaro pubblico non venga sperperato) si preveda pure un controllo pervasivo ed integrale del Giudice togato in sede di impugnazione del lodo, non escludendo che si tratti di un novum judicium (magari ad una sezione specializzata che debba definire questo contenzioso in un tempo accelerato limite). Ed ove ciò non basti, in caso di impugnazione, si potrebbe rimettere al giudice dell’impugnazione, la possibilità di rendere il lodo esecutivo in tutto od in parte, alla luce della serietà dei motivi di impugnazione. Le soluzioni di “garanzia” dunque possono essere le più varie.
Si vuol dire che non è difficile tutelare maggiormente la p.A. dal temuto rischio di ingiustificato esborso di denaro pubblico (istituendo un pregnante controllo giurisdizionale), al tempo stesso assicurando la rapida risoluzione del contenzioso (giungendo così al secondo grado di merito dinanzi al Giudice togato in tempi ridottissimi).
Negli ultimi trent’anni si è puntato sulle preclusioni e si è tentato di disincentivare il contenzioso, ma con benefici marginali.
Si provi coraggiosamente a puntare su velocità e qualità delle decisioni, privilegiando un primo grado arbitrale, se del caso integralmente rivedibile da parte della Corte d’appello (ma prevedendo una corsia preferenziale ed accelerata) come si conviene alle necessità di una economia competitiva: un doppio grado così strutturato potrebbe definire veramente in pochi anni le due fasi di merito.
Un risultato in tal senso è raggiungibile e accelererebbe la velocità del contenzioso dove più serve al sistema economico.